Di Francesco Rolle
Nel corso di questa calda estate molti di noi si sono occupati della riparazione in forma specifica, tema in questo momento assai di interesse per i periti e le compagnie di assicurazione. In tale ottica mi sembrava interessante esaminare una pronuncia della Cassazione (Cass. Sez. II, Sent., 8 maggio 2009, n. 10663) che trattasse un istituto affine espressamente disciplinato dal nostro codice civile, ovvero il risarcimento in forma specifica ex art.2058 codice civile.
Tale norma, prevista nella sezione dedicata all’illecito extracontrattuale, prescrive che, quando sia in tutto o in parte possibile, il danneggiato può chiedere la reintegrazione in forma specifica. Tale forma risarcitoria, a differenza del risarcimento per equivalente (rispetto al quale si pone come alternativa), consiste nella eliminazione diretta del pregiudizio, non già mediata per il tramite dell’attribuzione di una somma di denaro.
Ebbene la sentenza in esame, analizzando un caso attuale ricorrente, fornisce una chiara interpretazione dei principi che regolano l’istituto.
Come sempre, per apprezzare il ragionamento fatto proprio Supremo Collegio si rende necessaria una breve ricostruzione dei fatti, così come sinteticamente riportati nelle premesse della pronuncia in esame.
Con atto notificato il 9 novembre 1987, M.C., condomino dell’edificio in (OMISSIS), convenne il Condominio dello stesso davanti al Tribunale di Roma e, premesso che nel proprio appartamento si erano verificate ripetute infiltrazioni di acqua provenienti dalla sovrastante terrazza condominiale, che avevano cagionati gravissimi danni alle murature e ne avevano deprezzato il valore, domandava la condanna del convenuto al risarcimento dei danni subiti.
Si costituiva in giudizio il Condominio convenuto il quale, respinto ogni addebito, chiedeva ed otteneva di poter chiamare in causa la Danubio Assicurazioni, propria garante della RC, ed il signor F.E., precedente amministratore del Condominio, onde essere dagli stessi all’occorrenza manlevato.
Il Tribunale con sentenza del 31 gennaio 2001 condannava il convenuto al pagamento in favore del M. della somma di L. 41.377.501, per spese di ripristino e danni conseguenti al deprezzamento del suo immobile, oltre interessi legali dalla domanda, e rigettava le domande spiegate dal Condominio nei confronti dei chiamati in causa.
La decisione di primo grado, impugnata dal Condominio ed, in via riconvenzionale dal M., veniva riformata il 9 luglio 2003 dalla Corte di Appello di Roma la quale, in accoglimento dell’impugnazione principale e di quella incidentale, determinava il danno subito dall’attore nella minor somma di L. 6.377.501, oltre rivalutazione monetaria, secondo gli indici Istat, dal giorno del fatto a quello della pubblicazione della sentenza.
La Corte osservava sul punto che doveva escludersi che all’esito dei lavori di ripristino residuasse una riduzione di valore dell’appartamento e che la prova della realizzazione nel suo trasferimento di un minor prezzo per effetto del degrado dell’immobile avrebbe dovuto essere fornita in concreto, non essendo sufficiente alla sua dimostrazione la mera differenza fra la valutazione del bene fatta dal consulente ed il prezzo indicato nel rogito di compravendita. Il Giudice di secondo grado aggiungeva inoltre che sulla somma liquidata a titolo di danno andava riconosciuta la svalutazione monetaria in ragione della certezza del suo reinvestimento da parte dell’attore, ove la stessa gli fosse stata tempestivamente corrisposta.
La sentenza di secondo grado veniva impugnata dal M. con ricorso per cassazione. In particolare, il ricorrente con l’unico motivo dedotto deduceva che erroneamente la Corte territoriale aveva disconosciuto il danno costituito dalla riduzione del valore dell’appartamento, giacchè la prova di esso emergeva: a) dall’esistenza nell’immobile all’atto del trasferimento di ampi segni di degrado; b) dalla differenza tra il valore dell’appartamento stimato dal CTU ed il prezzo indicato nel rogito di compravendita stipulato il (OMISSIS) e dalla menzione in esso dell’esistenza di danni conseguenti alle infiltrazioni; c) dalla specificazione dell’evidente convenienza del prezzo pattuito nella richiesta del compratore al giudice tutelare di autorizzazione all’acquisto.
Il ricorrente aggiungeva inoltre che, diversamente da quanto affermato dai giudici di secondo grado, non incombeva sul danneggiato, bensì sul Condominio, l’onere di provare che il ricavato della vendita dell’immobile non corrispondeva al valore di mercato accertato dal CTU.
La Suprema Corte, con la sentenza in esame, accoglie il ricorso sulla base delle seguenti considerazioni.
La Corte premette che nel caso di responsabilità aquiliana, il risarcimento del danno può avvenire, in relazione alla sua funzione di porre il patrimonio del danneggiato nello stesso stato in cui si sarebbe trovato in assenza dell’evento lesivo, tanto per equivalente in denaro (cfr.: art. 2056, c.c.), computando la differenza di valore all’attualità tra il bene integro e quello danneggiato, quanto in forma specifica (cfr.: art. 2058 c.c.), mediante condanna del debitore al ripristino della situazione materiale anteriore all’evento ovvero al pagamento di una somma corrispondente alle spese occorrenti per tale ripristino.
Le due forme di risarcimento, che non escludono il ristoro di eventuali ulteriori pregiudizi subiti dal danneggiato, non sono tra loro cumulabili, pur essendo rimessa al danneggiato la scelta della forma di risarcimento ed in facoltà del giudice (od obbligo nell’ipotesi prevista dall’art.2933 c.c., comma 2) disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente, se la reintegrazione in forma specifica risulti eccessivamente onerosa (cfr.: art. 2058 c.c., comma 2). E ciò in quanto il riconoscimento e la liquidazione del danno trovano comunque sempre un loro naturale limite nell’esclusione che mediante essi il creditore possa realizzare una propria locupletazione.
La richiesta di risarcimento in forma specifica è quindi ammissibile a condizione che vi sia la possibilità di ottenere, a tal fine, il consenso del creditore procedente e che il relativo incombente non sia eccessivamente gravoso, sia per la natura dell’attività occorrente, che per la congruità, rispetto al danno, della somma da pagare.
Fatta questa premessa, la Cassazione ritiene che nella specie il giudice di secondo grado si sia conformato a tali principi, giacchè, in assenza di contestazione sulla disposta reintegrazione in forma specifica e sull’entità della spesa riconosciuta per le riparazioni, la Corte di Appello ha escluso che potesse essere computato nel danno anche quella diminuzione di valore dell’immobile conseguente alle infiltrazioni che il ripristino era destinato ad eliminare.
La Corte rileva che il ricorso, lamentando che a causa del degrado derivante dalle infiltrazioni l’appartamento danneggiato era stato alienato ad un prezzo inferiore a quello di mercato che avrebbe avuto se in buone condizioni, non ha conseguentemente attinto la ratio decidendi e neppure ha indicato le ragioni per le quali il diritto dell’attore al risarcimento del danno non si sarebbe consumato ed il debitore non sarebbe stato liberato dalla sua obbligazione con la reintegrazione in forma specifica, benchè egli nell’atto di vendita si fosse riservato il diritto a riscuotere le somme che a lui sarebbero state attribuite a tale titolo.
La Corte afferma infine che attiene, invece, ad un apprezzamento devoluto al giudice di merito, non censurabile in sede di legittimità, la valutazione della idoneità del ripristino materiale dell’immobile ad assicurarne quello economico e, nessuna violazione del principio dell’onere della prova è ravvisabile nella affermazione della sentenza nella parte in cui gravava sull’attore la dimostrazione di un nesso causale tra l’indicazione nel rogito di un prezzo di vendita inferiore al valore dell’immobile stimato dal CTU e l’inadeguatezza del risarcimento del danno liquidato in forma specifica a garantire all’immobile il completo recupero all’attualità del suo originario valore commerciale.
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