di Francesco Rolle
Questo mese segnalo una recente pronuncia della Cassazione – Cassazione Civile, 13 agosto 2015, n.16806 – la quale fornisce una chiara lettura dei principi che oggi, a valle degli ultimi interventi legislativi nazionali, governano il risarcimento del danno ambientale.
Come sempre, per apprezzare il ragionamento fatto proprio Supremo Collegio si rende necessaria una breve ricostruzione dei fatti, così come sinteticamente riportati nelle premesse della pronuncia in esame.
Il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio otteneva, ai danni di M.A. e S.R., separati decreti ingiuntivi nn. 169 e 170 del 2004 dal Tribunale di Venezia, per Euro 3.163,00 ciascuno, a titolo di risarcimento del danno ai sensi della L. n. 349 del 1986, art. 18 (oltre interessi legali e spese; e tanto in misura pari all’ammenda loro irrogata dal GIP del tribunale di Padova), causato dallo sversamento di prodotti vernicianti in una canaletta adiacente la fabbrica della A. srl, di cui essi erano stati legali rappresentanti.
L’opposizione degli ingiunti veniva accolta dal Tribunale di Venezia, il quale – con sentenza n. 2210/09 – riteneva non assolto dal Ministero l’onere probatorio sulla persistenza di un qualsivoglia danno ambientale a seguito del risarcimento in forma specifica già avvenuto, avendo gli opponenti riportato la canaletta nelle condizioni originarie.
L’appello del Ministero, opposto dagli ingiunti, veniva rigettato dalla Corte territoriale, la quale riscontrava la riduzione in pristino sulla base dei condivisi accertamenti della CTU disposta nel corso del giudizio di primo grado ed escludeva la prova del pericolo di inquinamento idrico e ambientale e delle perdite temporanee.
Il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare proponeva ricorso per Cassazione al fine di – per quanto di interesse – dedurre:
– la violazione del D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 58 e D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 17 e del D.M. 25 ottobre 1999, n. 471, art. 2, lett. e) e h), ritenendo non correttamente applicate le norme vigenti al tempo dei fatti. Sul punto il Ministero deduceva inoltre che nella specie non potevano affatto ritenersi correttamente adempiuti gli obblighi di riparazione;
– vizio motivazionale, nella parte in cui la Corte di Appello di Venezia non aveva valutato le contestazioni, mosse alla c.t.u. con l’atto di appello, relative alla non rappresentatività od idoneità delle indagini svolte, anche solo al fine di ritenere raggiunta la prova dell’intervenuta riduzione al pristino stato.
La Cassazione accoglie il ricorso principale e quindi cassa la sentenza con rinvio sulla base della seguente motivazione.
La Corte premette che i motivi di ricorso mantengono ancora sub iudice la questione della determinazione del risarcimento in punto di an e quantum e comportano, per l’effetto, l’applicazione dei principi regolatori della materia, come innovati nel frattempo.
Gli Ermellini – richiamato quanto espresso dalla stessa Cassazione con le pronunzie del 6 maggio 2015, nn. 9012 e 9013 – premettono che, in virtù dell’evoluzione della normativa, la disciplina nazionale – assai di recente ulteriormente modificata e definitivamente armonizzata con quella eurounitaria con il recepimento organico dei relativi principi, anche a causa di un duplice avvio a carico della Repubblica italiana, da parte della Commissione dell’Unione Europea, di procedure di infrazione alla direttiva 2004/35/CE – può in linea di grande approssimazione (e per quel che qui interessa) sintetizzarsi nell’espunzione dall’ordinamento della stessa risarcibilità per equivalente e nella legittimità dei soli interventi di recupero o riparazione (sia pur suddivisi in primaria, complementare e compensativa), se del caso all’esito di una compiuta riconsiderazione complessiva dei numerosi e differenziati interessi – generali e particolari, mai soltanto economici o patrimoniali in senso stretto – coinvolti, facenti capo ad una collettività potenzialmente indeterminabile ex ante e coinvolgenti valutazioni complesse ed affidati pertanto esclusivamente allo Stato.
In ragione di quanto precede – continua la Corte -, non residua alcun danno ambientale economicamente quantificabile e quindi risarcibile – nè in forma specifica, nè a maggior ragione per equivalente – ogniqualvolta, avutasi la riduzione al pristino stato, non persista la necessità di ulteriori misure sul territorio reso oggetto dell’intervento inquinante o danneggiante, soltanto il costo (ovvero il rimborso) delle quali potrà essere oggetto di condanna nei confronti dei danneggianti.
Gli Ermellini precisano quindi che tali misure vanno ora tutte verificate alla stregua della nuova normativa.
Ad avviso della Corte, inoltre (e sempre sulla base delle richiamate Cass. 6 maggio 2015, nn. 9012 e 9013), tale criterio va applicato anche alle controversie ancora in corso, nonostante possano riferirsi anche a fatti anteriori alla data di applicabilità della direttiva comunitaria, inscindibile essendo l’identificazione dell’ambiente quale oggetto di tutela e delle modalità e dell’ambito del risarcimento della sua lesione e per evitare la responsabilità dello Stato italiano per violazione del diritto eurounitario.
Ne consegue che il giudice della domanda di risarcimento del danno ambientale ancora pendente alla data di entrata in vigore della L. 6 agosto 2013, n. 97, essendo ormai esclusa la liquidazione per equivalente di quello, può ancora conoscere della domanda in applicazione del nuovo testo del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 311, come modificato prima dal D.L. n. 135 del 2009 cit., art. 5 bis, comma 1, lett. b) e poi dalla L. n. 97 del 2013 cit., art. 25 individuando le misure di riparazione primaria, complementare e compensativa – secondo la definizione data dalla normativa più recente ed in conformità alle sue previsioni – e, per il caso di omessa o imperfetta loro esecuzione, determinandone il costo, solo il rimborso del quale potrà essere reso oggetto di condanna nei confronti dei soggetti obbligati.
Ad avviso degli Ermellini, in questi termini il ricorso principale va allora accolto, con rinvio alla medesima Corte territoriale, ma in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità, affinchè proceda ad adeguare l’eventuale condanna risarcitoria ai principi di diritto espresso.
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